Виктория Максимова » Пт янв 04, 2008 13:08
Ну что, приступим ко второму этапу - попереводим Барикко. Есть желающие?
Повторяю условия нынешнего этапа:
- участники публикуют свои варианты перевода
- взаимно разбираем.
- потом я опубликую тот же отрывок, взятый из перевода, вышедшего в этом году в "Иностранке". Переводчик Екатерина Кислова.
- сравниваем наши усилия и результаты.
PS: перевод Кисловой у меня есть, мужественно креплюсь и не читаю его, пока не пришло время. Интересно будет потом почитать всем вместе.
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Книга - попытка театральной адаптации произведения для чтения несколькими актерами со сцены. В конце книги имеется послесловие, в нем Барикко рассуждает о натуре войн как таковых и о том, почему до сих пор войны обладают для людей какой-то дьявольской притягательно силой.
Ниже дается отрывок из этого послесловия. А в приложении отдельным файлом даю весь текст послесловия (чтобы хорошо понять контекст).
Предлагаемый отрывок для перевода в файле выделен желтым фоном. Переводить только его.
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8000 знаков
Quel che lui [Achille] dice davanti all'ambasceria mandatagli da Agamennone, nel IX libro, è forse il più violento e indiscutibile grido di pace che i nostri padri ci abbiano tramandato:
Niente, per me, vale la vita: non i tesori che la città di Ilio fiorente possedeva prima, in tempo di pace, prima che giungessero i figli dei Danai; non le ricchezze che, dietro la soglia di pietra, racchiude il tempio di Apollo signore dei dardi, a Pito rocciosa; si possono rubare buoi, e pecore pingui, si possono acquistare tripodi e cavalli dalle fulve criniere; ma la vita dell'uomo non ritorna indietro, non si può rapire o riprendere, quando ha passato la barriera dei denti.
Sono parole da Andromaca: ma nell'Iliade le pronuncia Achille, che è il sommo sacerdote della religione della guerra: e per questo esse risuonano con un'autorevolezza senza pari. In quella voce - che, sepolta sotto un monumento alla guerra, dice addio alla guerra, scegliendo la vita - l'Iliade lascia intravedere una civiltà di cui i Greci non furono capaci, e che tuttavia avevano intuito, e conoscevano, e perfino custodivano in un angolo segreto e protetto del loro sentire. Portare a compimento quell'intuizione forse è quanto nell'Iliade ci è proposto come eredità, e compito, e dovere.
Come svolgere quel compito? Cosa dobbiamo fare per indurre il mondo a seguire la propria inclinazione per la pace? Anche su questo l'Iliade ha, mi sembra, qualcosa da insegnare. E lo fa nel suo tratto più evidente e scandaloso: il suo tratto guerriero e maschile. È indubbio che quella storia presenti la guerra come uno sbocco quasi naturale della convivenza civile. Ma non si limita a questo: fa qualcosa di assai più importante e, se vogliamo, intollerabile: canta la bellezza della guerra, e lo fa con una forza e una passione memorabili. Non c'è quasi eroe di cui non si ricordi lo splendore, morale e fisico, nel momento del combattimento. Non c'è quasi morte che non sia un altare, decorato riccamente e ornato di poesia. La fascinazione per le armi è costante, e l'ammirazione per la bellezza estetica dei movimenti degli eserciti è continua. Bellissimi sono gli animali, nella guerra, e solenne è la natura quando è chiamata a far da cornice al massacro. Perfino i colpi e le ferite vengono cantati come opere superbe di un artigianato paradossale, atroce, ma sapiente. Si direbbe che tutto, dagli uomini alla terra, trovi nell'esperienza della guerra il momento di sua più alta realizzazione, estetica e morale: quasi il culmine glorioso di una parabola che solo nell'atrocità dello scontro mortale trova il proprio compimento. In questo omaggio alla bellezza della guerra, l'Iliade ci costringe a ricordare qualcosa di fastidioso ma inesorabilmente vero: per millenni la guerra è stata, per gli uomini, la circostanza in cui l'intensità - la bellezza - della vita si sprigionava in tutta la sua potenza e verità. Era quasi l'unica possibilità per cambiare il proprio destino, per trovare la verità di se stessi, per assurgere a un'alta consapevolezza etica. Di contro alle anemiche emozioni della vita, e alla mediocre statura morale della quotidianità, la guerra rimetteva in movimento il mondo e gettava gli individui al di là dei consueti confini, in un luogo dell'anima che doveva sembrar loro, finalmente, l'approdo di ogni ricerca e desiderio. Non sto parlando di tempi lontani e barbari: ancora pochi anni fa, intellettuali raffinati come Wittgenstein e Gadda, cercarono con ostinazione la prima linea, il fronte, in una guerra disumana, con la convinzione che solo là avrebbero trovato se stessi. Non erano certo individui deboli, o privi di mezzi e cultura. Eppure, come testimoniano i loro diari, ancora vivevano nella convinzione che quell'esperienza limite - l'atroce prassi del combattimento mortale - potesse offrire loro ciò che la vita quotidiana non era in grado di esprimere. In questa loro convinzione riverbera il profilo di una civiltà, mai morta, in cui la guerra rimaneva come fulcro rovente dell'esperienza umana, come motore di qualsiasi divenire. Ancor oggi, in un tempo in cui per la maggior parte degli umani l'ipotesi di scendere in battaglia è poco più che un'ipotesi assurda, si continua ad alimentare, con guerre combattute per procura attraverso i corpi di soldati professionisti, il vecchio braciere dello spirito guerriero, tradendo una sostanziale incapacità a trovare un senso, nella vita, che possa fare a meno di quel momento di verità. La malcelata fierezza maschile cui, in Occidente come nel mondo islamico, si sono accompagnate le ultime esibizioni belliche, lascia riconoscere un istinto che lo shock delle guerre novecentesche non ha evidentemente sopito. L'Iliade raccontava questo sistema di pensiero e questo modo di sentire, raccogliendolo in un segno sintetico e perfetto: la bellezza. La bellezza della guerra - di ogni suo singolo particolare - dice la sua centralità nell'esperienza umana: tramanda l'idea che altro non c'è, nell'esperienza umana, per esistere veramente.
Quel che forse suggerisce l'Iliade è che nessun pacifismo, oggi, deve dimenticare, o negare quella bellezza: come se non fosse mai esistita. Dire e insegnare che la guerra è un inferno e basta è una dannosa menzogna. Per quanto suoni atroce, è necessario ricordarsi che la guerra è un inferno: ma bello. Da sempre gli uomini ci si buttano come falene attratte dalla luce mortale del fuoco. Non c'è paura, o orrore di sé, che sia riuscito a tenerli lontani dalle fiamme: perché in esse sempre hanno trovato l'unico riscatto possibile dalla penombra della vita. Per questo, oggi, il compito di un vero pacifismo dovrebbe essere non tanto demonizzare all'eccesso la guerra, quanto capire che solo quando saremo capaci di un'altra bellezza potremo fare a meno di quella che la guerra da sempre ci offre. Costruire un'altra bellezza è forse l'unica strada verso una pace vera. Dimostrare di essere capaci di rischiarare la penombra dell'esistenza, senza ricorrere al fuoco della guerra. Dare un senso, forte, alle cose senza doverle portare sotto la luce, accecante, della morte. Poter cambiare il proprio destino senza doversi impossessare di quello di un altro; riuscire a mettere in movimento il denaro e la ricchezza senza dover ricorrere alla violenza; trovare una dimensione etica, anche altissima, senza doverla andare a cercare ai margini della morte; incontrare se stessi nell'intensità di luoghi e momenti che non siano una trincea; conoscere l'emozione, anche la più vertiginosa, senza dover ricorrere al doping della guerra o al metadone delle piccole violenze quotidiane. Un'altra bellezza, se capite cosa voglio dire.
Oggi la pace è poco più che una convenienza politica: non è certo un sistema di pensiero e un modo di sentire veramente diffusi. Si considera la guerra un male da evitare, certo, ma si è ben lontani da considerarla un male assoluto: alla prima occasione, foderata di begli ideali, scendere in battaglia ridiventa velocemente un'opzione realizzabile. La si sceglie, a volte, perfino con una certa fierezza. Continuano a schiantarsi, le falene, nella luce del fuoco. Una reale, profetica e coraggiosa ambizione alla pace io la vedo soltanto nel lavoro paziente e nascosto di milioni di artigiani che ogni giorno lavorano per suscitare un'altra bellezza, e il chiarore di luci, limpide, che non uccidono. È un'impresa utopica, che presuppone una vertiginosa fiducia nell'uomo. Ma mi chiedo se mai ci siamo spinti così avanti, come oggi, su un simile sentiero. E per questo credo che nessuno, ormai, riuscirà più a fermare quel cammino, o a invertirne la direzione. Riusciremo, prima o poi, a portar via Achille da quella micidiale guerra. E non saranno la paura né l'orrore a riportarlo a casa. Sarà una qualche, diversa, bellezza, più accecante della sua, e infinitamente più mite.
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- Alessandro Baricco "Omero, Iliade"
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